24 Settembre 2021 – La Crusca prende posizione sulla schwa

28 Settembre 2021 Off Di Italiano Inclusivo

Vari quotidiani

e numerosi altri siti web hanno riportato l’opinione dell’Accademia della Crusca su schwa e altre soluzioni inclusive, pubblicata sul sito della stessa con l’articolo Un asterisco sul genere, a firma di Paolo D’Achille – a ulteriore dimostrazione, se ce ne fosse ancora bisogno, di quanto vivace sia il dibattito sulla nostra proposta per rendere l’italiano più inclusivo.

Per il peso che l’Accademia della Crusca ha, questa è una notizia davvero rilevante per chi ha a cuore l’italiano inclusivo. Già tantɜ fra coloro che ci criticano hanno cantato vittoria per l’italiano standard, come se questo fosse un verdetto di condanna definitivo. Ma è davvero così? Vediamo perché assolutamente no.

Purtroppo in quest’articolo notiamo nell’atteggiamento della Crusca un atteggiamento più che conservatore: diremmo addirittura reazionario non solo nei confronti di queste innovazioni inclusive, ma perfino riguardo conquiste antisessiste ormai praticamente consolidate nella nostra lingua, e ciò è in contrasto con la missione dichiarata dell’Accademia stessa.

Qual è il ruolo della Crusca?

Ricordiamo infatti innanzitutto che l’Accademia della Crusca, differentemente da enti analoghi in altri paesi – come d’altra parte afferma D’Achille stesso nell’articolo – ha un ruolo descrittivo, non prescrittivo: non decide sulla correttezza di un uso nella nostra lingua ma, semplicemente, ne descrive l’uso e la sua evoluzione fra lɜ parlanti. Eppure, in netto contrasto a questa sua affermazione, a leggere quest’articolo ci sembra che invece stavolta la Crusca abbia tradito questo suo ruolo. Di fatto, se si parla tanto della schwa in questi ultimi tempi è proprio a causa della diffusione esponenziale che ha avuto da quando è stata proposta per la prima volta nel 2015 e la Crusca, fosse fedele al suo mandato, dovrebbe semplicemente documentare la nascita, l’evoluzione e la diffusione di questo fenomeno. Ma così, purtroppo, non è.

L’articolo di D’Achille non menziona specificamente la schwa nel titolo, Un asterisco sul genere, ma all’uso della schwa nell’italiano inclusivo è dedicata una sua intera sezione.

Genere grammaticale e genere personale

Ma andiamo per gradi: innanzitutto D’Achille afferma che “il genere grammaticale è cosa del tutto diversa dal genere naturale”. Tuttavia, afferma che lo si può dimostrare facilmente in quanto esso “è presente in molte lingue, ma ancora più numerose sono quelle che non lo hanno”, perché può prevedere “una differenziazione in classi che in certi casi non sfrutta e in altri va ben oltre la distinzione tra maschile e femminile propria dell’italiano”, perché “esistono, in altre lingue, vari altri generi grammaticali, determinati da criteri ora formali ora semantici”, perché “come avviene in inglese, può limitarsi ai pronomi, senza comportare quell’alto grado di accordo grammaticale che l’italiano prevede”.

Ecco, appunto: tutto ciò che D’Achille afferma dimostra che il genere grammaticale non in tutte le lingue è così strettamente legato al genere personale come lo è in italiano. Ma in italiano, almeno per la maggior parte dei casi, lo è, eccome.

(Nota: qui, come nel prosieguo, useremo genere personale e non genere naturale, in quanto – e lo afferma anche lo stesso D’Achille – è ormai pienamente accettabile correlare il genere grammaticale all’identità sessuale e non al genere di nascita)

Prosegue, infatti, ad evidenziare quei casi dove anche in italiano non c’è stretta correlazione fra genere grammaticale e genere personale. Solo eccezioni minoritarie, appunto. Il genere grammaticale, quindi, in italiano, altroché, è strettamente legato al genere personale.

Il maschile sovraesteso

Passa poi a ribadire il concetto che, in italiano, il maschile plurale è da considerare “genere grammaticale non marcato” o, come preferiamo dire noi, sovraesteso. Ma questo a poco serve: ribadisce solo quello che è lo statu quo sui libri di grammatica. Se c’è una spinta evolutiva, in questo caso, è proprio perché questo maschile sovraesteso è considerato invisibilizzante da una parte sostanziale dellɜ parlanti.

La potente lobby della lingua inclusiva

Un’ulteriore critica è, poi, quella trita – e infondata – che qualche potere forte stia cercando di fare “dirigismo linguistico”. Ma l’italiano inclusivo, in questa variante, nasce da un’idea di un singola persona, privatǝ cittadinǝ senza alcun ruolo istituzionale, neppure unǝ linguista, e si è poi diffusa per passaparola, dapprima nelle comunità più sensibili al tema dell’inclusione e poi, via via, anche oltre quei confini. Nessun dirigismo, quindi, ma solo un fenomeno di naturale evoluzione della lingua, non poi così dissimile da tutti gli altri che hanno portato la nostra lingua ad essere quella che è oggi.

La Crusca contro Alma Sabatini

Nel proseguire, poi, attribuisce l’appellativo di “maestro” ad un’accademica della Crusca, affermando che “è quasi una scelta obbligata per indicare un’eccellenza femminile in un ambiente a maggioranza maschile”. Con buona pace di Alma Sabatini, che tanto si è battuta perché proprio in ambiti di prestigio il femminile fosse usato con pari dignità, e ancor più grave in un articolo come questo, che parla del – anzi contro il – tema del linguaggio inclusivo. No, D’Achille, questa scelta era tutt’altro che obbligata, ed è una scelta sufficiente da sola a capire la sua posizione reazionaria sul tema.

Il problema irrisolto delle persone non binarie

Quando poi si confronta col problema di come indirizzarsi a chi sia persona non binaria (eh, caro D’Achille, sa, le persone gender fluid ne sono solo un sottoinsieme) afferma che l’italiano standard ha tutte le soluzioni senza dover ricorrere ad asterischi o schwa (salvo, per sua stessa affermazione, forse quella per l’accordo del participio passato). Ma sono tutte soluzioni che chiunque si sia confrontatǝ col tema del linguaggio inclusivo sa essere foriere di prolissità, di acrobazie linguistiche, di perdita di leggibilità del testo e di scorrevolezza del discorso. E allora, se una lingua vuol essere pienamente inclusiva, non può accettare che per parte delle persone che la parlano e di cui parla sia nettamente più difficile parlare di loro, e per loro di sé.

E infine, la schwa. O lo schwa?

E, finalmente, arriva a parlare della schwa a noi cara – puntualizzando, chissà perché ne senta la necessità, che si tratta di una lettera “grammaticalmente maschile”. (Noi siamo dell’opinione che, per analogia con tutte le altre lettere e dato che si può parlare implicitamente de “la [lettera] schwa”, stia benissimo anche al femminile).

Purtroppo, poi, si lancia in affermazioni che non hanno base alcuna.

La schwa non sarebbe “usato come grafema in lingue che pure, diversamente dall’italiano, hanno lo schwa all’interno del loro sistema fonologico” – con buona pace degli azerbaijiani, che la schwa la hanno eccome nel loro alfabeto, e per tutto il resto usano quello latino comune a noi.

Sarebbero poi incongrue grafie come “sostenitorǝ” – perché mai? – o “fortǝ” – bella scoperta che è incongrua, infatti “forte” è parola epicena e rimane invariata anche in italiano inclusivo!

Né esisterebbe il maiuscolo della schwa. Di nuovo: poveri azerbaijiani, come faranno mai a scrivere quella grossa “Ə”… oh, toh, c’è! E no, non è, come afferma D’Achille, “lo stesso segno, ingrandito”: è un carattere a parte del set Unicode. Così come “o”, “c”, “s” formano la maiuscola in “O”, “C”, “S”, semplicemente versioni maiuscole dello stesso grafema che mantengono sostanzialmente la forma della minuscola, altrettanto “ǝ” può avere la sua maiuscola come “Ə”.

C’è chi per la schwa maiuscola preferisce, invece, la “Ǝ” e, secondo D’Achille, ci sarebbe un problema di collisione semantica fra la schwa e il simbolo matematico “esiste”. Ma chi mai potrebbe confonderlo, quando usato in finale di parola? Alla stessa stregua, dovremmo allora smettere di usare anche la “V”, usata in algebra booleana e in teoria degli insiemi, e i greci dovrebbero rinunciare ad ogni lettera del loro alfabeto per non confondersi con sommatorie e produttorie, derivate, discriminanti e così via.

Afferma poi che “[q]uanto al parlato, non esistendo lo schwa nel repertorio dell’italiano standard, non vediamo alcun motivo per introdurlo”. Ecco, vede, D’Achille: lei non vede alcun motivo. Ma se si fa tanto parlare della schwa, evidentemente sono in tantɜ a vederlo, questo motivo.

“Anche il riferimento ai sistemi dialettali ci sembra fallace perché nei dialetti spesso la presenza dello schwa limita, ma non esclude affatto la distinzione di genere grammaticale, che viene affidata alla vocale tonica”. Ma certo. Ma il riferimento ai sistemi dialettali non è mai stato fatto per introdurre la schwa nell’italiano inclusivo con lo stesso valore semantico che ha in quei dialetti; piuttosto, solo per evidenziare come per lɜ moltɜ parlanti italiano che siano anche parlanti di uno dei tanti dialetti che comprendono questo fonema la sua pronuncia non sia affatto difficile, mentre per ogni altra persona che abbia mai ascoltato una canzone di Pino Daniele è, quantomeno, un fonema non ignoto.

L’ultima sua critica è rispetto alla schwa plurale, che nella nostra proposta è formata con il grafema “ɜ”. Anch’esso, a detta di D’Achille, scelta discutibile “per la possibile confusione con la cifra 3”. E torniamo a ribadire, come per la seconda forma della schwa maiuscola: chi mai sarebbe tanto sprovveduto da non riuscire a capire che un grafema simile, utilizzato in fine di parola, non è una cifra ma una lettera, magari dopo il primo paio di volte che l’avrà incontrata? Ma ancor di più: come faranno mai tuttɜ coloro che usano i caratteri cirillici a leggere i loro testi, costellati di “ɜ”, senza confondersi?

Ma soprattutto: si tratta davvero di una questione linguistica?

Fra le tante critiche che abbiamo ricevuto a seguito di questo articolo dell’Accademia c’è statǝ chi ha detto che noi, non essendo neppure dellɜ linguistɜ, dovremmo semplicemente accettare il verdetto della Crusca.

Tuttavia, a parte ricordare che le lingue non le modificano lɜ linguistɜ ma la comunità dellɜ parlanti, anche nello stesso articolo di D’Achille traspare come la questione travalichi di gran lunga l’ambito puramente linguistico. Quello dell’evoluzione delle lingue in senso inclusivo è un tema che investe prima di tutto il campo sociologico e quello psicologico, e solo come conseguenza quello linguistico.

Per questo, se pure noi di Italiano Inclusivo potremmo esser accusatɜ di non esser competenti a discettare di linguistica, neppure l’Accademia della Crusca può emettere una sentenza nei confronti di una questione che non si esaurisce nel suo campo di competenza.

In conclusione

Insomma: l’articolo di D’Achille ci sembra, come la maggior parte delle critiche all’italiano inclusivo, assolutamente privo di basi sostanziali. Ma forse ancor più grave è il fatto che tradisca quella che è la funzione della nostra principale istituzione linguistica nazionale, ne tradisca anche un’atteggiamento politico decisamente ostile alle istanze di tutela delle differenze di genere e alla loro parità, e sorvoli sul fatto che sta emettendo pareri su un campo che le compete solo parzialmente.

Per chiudere, vorremmo anche segnalare un altro paio di articoli di commento a questo dell’Accademia, nei cui contenuti ci riconosciamo: