La ǝ è stata scelta come vocale per la declinazione inclusiva considerando adatte all’uso molte sue caratteristiche, sia dal punto di vista grafico (di cui parliamo nella pagina Come si scrive) che fonetico.
Dal punto di vista fonetico si è partiti da due considerazioni.
La prima considerazione è che, nella lingua italiana, utilizziamo solamente sette vocali: la a (casa), la e aperta (bene) e la e chiusa (sete), la i (vino), la o aperta (rosa) e la o chiusa (dono) , e la u (lupo).
L’AFI – Associazione Fonetica Internazionale (più nota come IPA – International Phonetic Association) rappresenta le vocali di ogni lingua in un diagramma trapezoidale, dove sull’asse orizzontale è rappresentata la posizione nell’apparato vocale dove la vocale è pronunciata (anteriore/centrale/posteriore) e sull’asse verticale è rappresentata l’apertura delle vocali.
Secondo questo schema, queste sono le vocali utilizzate nella lingua italiana standard:
Ma le vocali pronunciabili dal nostro apparato vocale sono molte di più! Questo è il diagramma IPA delle vocali, con quelle italiane rappresentate in rosso:
C’era, quindi, molta scelta per una vocale che rappresentasse la declinazione inclusiva.
La scelta è caduta sulla ǝ principalmente per due motivi:
- è la vocale più distante da tutte quelle già utilizzate nella nostra lingua e, pertanto, la più distinguibile nella pronuncia;
- è già presente nativamente nella pronuncia di molti dialetti e lingue regionali in Italia, quali il napoletano, il ciociaro, il piemontese e nelle varianti orientali dell’emiliano-romagnolo e, pertanto, è facile da usare per moltɜ parlanti e probabilmente già sentita da tuttɜ lɜ altrɜ.
Ad esempio, in napoletano, “màmmeta” è pronunciato, secondo la trascrizione IPA, come /’mammətə/. In piemontese ha perfino una sua grafia, ë, ed è presente ad esempio in parole quali fërté, (strofinare), chërde (credere), fëtta (fetta).
Anche per chi parla inglese è estremamente facile capire quale sia il suono della ǝ: è infatti la vocale più frequentemente usata nella lingua inglese. Ad esempio, è la prima vocale di again, l’ultima vocale di letter, e così via. Per chi parla francese, invece, è un suono simile alla vocale dell’articolo le, la prima vocale della parola petit, la seconda della parola samedi.
La cosa buffa è che, fra chi si lamenta di non sapere come pronunciarla, ci sono magari anche quelle persone che, in un momento di incertezza nel parlare, fanno quel suono indistinto per prendere tempo… ecco, quella è la schwa!
Per chi abbia un account instagram, forse la guida video più sintetica e simpatica di tutte su come pronunciare la schwa è qui. (Ringraziamo Vera Gheno per il contributo).
Al plurale
C’era poi bisogno di scegliere un’altra delle vocali non già presenti in italiano per la declinazione inclusiva plurale.
La scelta è caduta sulla cosiddetta “schwa lunga”, rappresentata col simbolo ɜ, sempre in quanto distante da tutte le altre vocali già presenti nel parlato italiano standard.
È pronunciata come la ǝ, ma più aperta.
Una possibile criticità può essere dovuta alla vicinanza fonetica di ǝ ed ɜ, ma nella maggior parte dei casi il numero plurale si può desumere dal contesto; inoltre l’abitudine renderà via via più facile distinguere le due vocali fra loro.
Ma suona male!
La percezione di “stranezza” deriva dall’inabitudine. Ogni parola nuova, ogni modifica rispetto a quanto si è usi sentire, porta questa sensazione di “stranimento” e “innaturalità”.
Ma le lingue evolvono. Le prime volte che si è sentita la parola “sindaca” probabilmente ci si è accapponata la pelle. La seconda, un po’ meno. Ora, è già percepito come accettabile, se non del tutto normale, e ciò nonostante secoli di uso solo al maschile. Stessa cosa per le altre lingue: ancora oggi, in inglese, c’è chi si oppone strenuamente al singular they. Ma più passa il tempo, più si sta facendo parte integrante dell’uso comune e percepito come sempre più normale.
Il modo migliore, quindi, per superare questa sensazione è usarlo costantemente.