7 agosto 2021 – Serianni parla della schwa su la Repubblica Cultura

8 Agosto 2021 Off Di Italiano Inclusivo

Nella sezione Cultura di la Repubblica Simonetta Fiori intervista Luca Serianni, linguista e filologo, co-curatore e poi coautore del Devoto-Oli, nel suo articolo: La lingua italiana non si cambia con l’asteriscoLo schwa e gli altri segni grafici inclusivi entreranno nel vocabolario? Secondo Luca Serianni, che studia l’italiano da anni, no. Ecco perché.

Serianni afferma che, a suo parere, le soluzioni per rendere l’italiano più inclusivo tramite l’aggiunta di segni grafici non avranno successo.

Ecco i motivi che adduce, e i nostri commenti al riguardo.

Come prima cosa, Serianni fa un parallelo con le modifiche alla lingua italiana suggerite da Trissino nel ‘500:

[…] nella storia della lingua italiana non è la prima volta che viene proposta una riforma grafica dell’alfabeto. È già accaduto nel Cinquecento, quando un letterato vicentino, Gian Giorgio Trissino, propose di aggiungere dei segni particolari per distinguere la “e” aperta da quella chiusa, e la “o” aperta dalla “o” chiusa. Ma questa riforma grafica non ebbe alcun successo. Le proposte fatte dall’alto, da singoli gruppi, hanno scarsa possibilità di affermarsi.

Ora: il parallelo non ha alcun senso, e per almeno due motivi. Il primo, e forse il fondamentale, è che la proposta di Trissino per quanto riguarda la distinzione fra vocali aperte e chiuse aveva una funzione drasticamente diversa da quella dell’introduzione della declinazione inclusiva.

Nel caso della proposta di Trissino, infatti, salvo casi particolari (pèsca/pésca) possiamo agevolmente distinguere la caratteristica di apertura o chiusura di una vocale anche in mancanza di un grafema distinto per i due suoni; per i restanti casi di solito basta il contesto e, laddove non basti, si ricorre, come abbiamo fatto anche noi poco sopra, all’accento grafico grave o acuto. In mancanza di una declinazione inclusiva, invece, manca del tutto il modo di esprimere un concetto, fatto salvo l’uso di perifrasi scomodissime.

Il secondo motivo, tuttavia, è che non è vero che le proposte del Trissino furono senza alcun seguito. Se oggi usiamo due segni distinti per “u” e “v”, e se usiamo la “z” in parole che erano all’epoca scritte con la “t” (oratione -> orazione) è proprio grazie alle sue proposte. Quindi: sì, a volte alcune proposte di modifica della lingua hanno successo, possibilità che – ai posteri – ha anche la proposta dell’introduzione della schwa per la declinazione inclusiva.

E ancora:

La proposta è destinata a non avere futuro anche per un’altra ragione: i segni grafici di cui parliamo non hanno un corrispettivo nel parlato. E qualunque lingua è in primo luogo una lingua parlata. Lo schwa che resa può avere? Nessuna.

Fa impressione vedere come egregi linguisti del calibro di Serianni cadano in errori plateali pur di sostenere una tesi reazionaria.

Se la schwa è tanto assurta all’onore delle cronache recenti, dopo decenni di uso raramente commentato dell’asterisco, è proprio perché, al contrario di quest’ultimo, è pronunciabile – e forse è proprio questo che fa paura, per la sua reale possibilità di successo.

E no, non è una vocale indistinta. Indistinta significa non distinguibile. Se l’IPA ha un segno per indicare un fonema, è perché quel fonema è chiaramente distinguibile. Non confondiamo il concetto di centralità media con quello di distinguibilità dagli altri fonemi.

In chiusura, l’autrice dell articolo chiede se le ideologie possano cambiare una lingua.

Possono riuscirci nei regimi dittatoriali. Il fascismo ci ha provato: forse sarebbe riuscito a eliminare il “lei” se non fosse caduto pochi anni dopo il divieto. I cambiamenti imposti dall’alto sono più difficili in un assetto democratico e policentrico come il nostro. Anche per questa ragione la possibilità di intervenire in modo coattivo sul nostro alfabeto mi sembra destinata al fallimento.

E ci chiediamo come mai ancora una volta questa proposta di estensione semantica della nostra lingua in senso inclusivo venga percepita da tantɜ come un’imposizione, quando altro non è che una semplice proposta che parte dalla base, altro che dall’alto, e nata da un’esigenza comunicativa – che, poi, sarebbe il bisogno principale cui assolve una lingua, ogni lingua.